Incostituzionalità del blocco stipendi dei pubblici dipendenti: la Consulta decide

« Older   Newer »
  Share  
Libero Rossi
view post Posted on 11/12/2013, 12:58     +1   -1




Incostituzionalità del blocco stipendi dei pubblici dipendenti: la Consulta decide



Si è tenuta, lo scorso 6 novembre, la Camera di Consiglio in Corte Costituzionale, sui profili di incostituzionalità della norma riguardante il blocco stipendiale dei dipendenti pubblici non- contrattualizzati. Si attende ora il deposito del testo della sentenza da parte della Consulta.

Com’è noto infatti, il comma 21 dell’art.9 del d.l. 78/2010- c.d. Finanziaria 2011- stabilisce che le progressioni di carriera del personale non privatizzato -disposte negli anni 2011, 2012, 2013- hanno effetto ai fini esclusivamente giuridici.

La norma dunque, come peraltro sottolineato dalle ordinanze di rimessione del Tar Lazio del 6 luglio 2012, viola gli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione. Questi i rilievi di costituzionalità:

- evidente disparità di trattamento economico tra i dipendenti promossi nel 2011- prima del cd. “blocco stipendi”- e quelli promossi in vigenza della suddetta norma;

- disparità di trattamento tra colleghi pari-grado;

- violazione del precetto costituzionale che impone una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato;

- violazione del principio di capacità contributiva, sotto il profilo dell’imposizione di un sacrificio patrimoniale solo a determinate categorie di lavoratori ( quelli pubblici) in virtù di un dato aleatorio ed economicamente insignificante.

Per ulteriori approfondimenti, si allega il testo dell’ordinanza di rimessione del Tar Lazio n.7982/ 2011


N. 06161/2012 REG.PROV.COLL.
N. 07982/2011 REG.RIC.
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 7982 del 2011, proposto da:
Massimo Riccardo, rappresentato e difeso dall'avv. Federico Ghera, con
domicilio eletto presso Federico Ghera in Roma, via delle Milizie, 1;
contro
Ministero degli Affari Esteri, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in
persona del Ministro p.t., rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura
Generale Dello Stato, presso i cui Uffici sono domiciliati in Roma, via
dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del d.p.r. n. 17 del 19.05.2011 nella parte in cui dispone che la nomina
del dott. massimo riccardo a ministro plenipotenziario valga, per gli anni
2011, 2012 e 2013, “ai fini esclusivamente giuridici”, e dunque senza
corresponsione del relativo trattamento economico;
nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e/o consequenziale, ed
in particolare,per quanto possa occorrere: a) della delibera adottata dal
consiglio dei ministri nella seduta del 23.03.2011; b) del relativo atto di
proposta del ministero degli affari esteri
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero degli Affari Esteri
e della Presidenza del Consiglio dei Ministri;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 maggio 2012 il cons. Rosa
Perna e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
1. Il ricorrente, funzionario diplomatico del Ministero degli affari esteri
rivestente il grado di Ministro Plenipotenziario, impugna il decreto del
Ministero degli affari esteri 17 maggio 2011, n. 0856 che, in seguito alla
sua nomina al grado di Ministro Plenipotenziario, intervenuta con d.P.R.
16 febbraio 2011, n. 4, con decorrenza 2 gennaio 2011, ha determinato
l’attribuzione del relativo trattamento economico, stabilendo che per gli
anni 2011, 2012 e 2013 gli effetti sono “esclusivamente giuridici”.
L’impugnato decreto ministeriale espone di dare applicazione al comma
21 dell’art. 9 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, recante “Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”,
convertito, con modificazioni, dalla l. 30 luglio 2010, n. 122.
La disposizione recita che “I meccanismi di adeguamento retributivo per
il personale non contrattualizzato di cui all'articolo 3 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, così come previsti dall'articolo 24 della
legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli anni 2011, 2012
e 2013 ancorché a titolo di acconto, e non danno comunque luogo a
successivi recuperi. Per le categorie di personale di cui all'articolo 3 del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che
fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi,
gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle
classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Per il
personale di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque
denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno
effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. Per il
personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque
denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni
2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini
esclusivamente giuridici”.
Al riguardo, il ricorrente sostiene che il ripetuto art. 9, comma 21, nei
suoi confronti non troverebbe applicazione, che, in ogni caso,
l’amministrazione ne avrebbe fatto erronea applicazione, e solleva
questione di costituzionalità, in relazione agli artt. 3, 4, 35, 36 e 97 Cost.,
dell’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, con
modificazioni, dalla l. n. 122 del 2010, se applicabile alle nomine degli
ambasciatori.
2. Negli esclusivi limiti imposti dalla verifica di rilevanza della questione
di costituzionalità, va quindi anzitutto chiarito se è vero che, come
sostenuto dal ricorrente, l’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 non è
applicabile alle nomine degli ambasciatori (rectius: dei Ministri
plenipotenziari).
La questione in parola è dal ricorrente posta con il primo mezzo
(Violazione dell’art. 9, comma 21, del d.l. 78/2010 convertito con
modificazioni dalla l. 122/2010, degli artt. 101, 105, 109-bis del d.P.R. 5
gennaio 1967, n. 18 e s.m.i. – Eccesso di potere), con il quale si sostiene
che le nomine al grado di Ministro Plenipotenziario non costituirebbero
una progressione di carriera ma un vero e proprio cambiamento di
status, restando, pertanto, estranee alla regolazione discendente dal
citato art. 9, comma 21, che la progressione di carriera, invece,
presuppone.
Le argomentazione per il tramite delle quali il ricorrente perviene a
siffatta conclusione non risultano però persuasive.
Invero, per un verso, lo stesso ricorrente riconosce che l’art. 101 del
decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18,
“Ordinamento dell'Amministrazione degli affari esteri”, imprime alla
carriera diplomatica – i cui gradi, in ordine decrescente, sono costituiti
da ambasciatore, ministro plenipotenziario, consigliere di ambasciata,
consigliere di legazione, segretario di legazione – la “unitarietà del
ruolo”.
Il dato normativo, che è, sul punto, di indubbio rilievo, perché connesso
proprio alla modalità organizzativa del personale dell’Amministrazione
degli affari esteri, consente di ritenere che, nell’ambito dell’unicum
costituito dal ruolo, il passaggio tra i predetti gradi realizza un vero e
proprio sviluppo della carriera, e rende irrilevante la circostanza,
segnalata dal ricorrente, che le successive disposizioni prevedano che
l’accesso ai primi tre gradi avviene per “promozione” (artt. 103,
107,108), mentre l’accesso ai due gradi apicali è disposto per “nomina”
(artt. 109 e 109-bis): infatti tali modalità, nel descritto contesto generale,
riflettono esclusivamente l’esistenza di un diverso rapporto fiduciario tra
il promosso ed il nominato con l’istituzione di appartenenza.
Per altro verso, il ricorrente evidenzia che, per costante giurisprudenza
amministrativa, la nomina ai gradi più alti della carriera diplomatica
(ambasciatore e ministro plenipotenziario) è espressione di esercizio di
elevata discrezionalità amministrativa.
L’argomentazione è in sé e per sé condivisibile ma non conduce a
quanto auspicato dal ricorrente.
Infatti, non solo non si ravvisa alcun elemento fattuale o giuridico che
induce a ritenere che l’esercizio di una elevata discrezionalità nella scelta
dei diplomatici da porre al vertice della carriera si pone come dato
antinomico rispetto al concetto di progressione in carriera, ma, vieppiù,
tenuto conto che siffatta scelta, indipendentemente dal nomen della
procedura a tal fine utilizzata, avviene nell’ambito di una platea di
candidati provenienti dai gradi inferiori, l’elemento è idoneo a segnalare
proprio l’opposto, ovvero che la scelta altamente discrezionale di cui si
discute costituisce evidente e squisita manifestazione di una modalità di
progressione tipica di una tipologia di carriera, di tipo accentuatamente
piramidale.
Senza contare, poi, in ogni caso, che l’art. 9, comma 21, del d.l. 78/2010,
con la locuzione “progressioni di carriera comunque denominate” fa
riferimento a qualsiasi tipo di avanzamento di carriera.
3. Escluso, per quanto sopra, che possa convenirsi con il ricorrente
quando afferma che la nomina al grado di Ministro Plenipotenziario non
costituirebbe espressione di quella progressione di carriera che il ridetto
art. 9, comma 21, d.l. 78/2010 presuppone, e sempre negli esclusivi limiti
imposti dalla verifica di rilevanza della questione di costituzionalità, va
ora valutato se, come pure sostenuto dal ricorrente, l’art. 9, comma 21,
del d.l. 78/2010, quale norma di carattere generale, non potesse
derogare, modificandola, alla disciplina speciale che regola il trattamento
economico dei diplomatici, di cui all’artt. 101 e 112 del predetto d.P.R. n.
18 del 1967 ed all’art. 1 e ss. del d.P.R. 13 agosto 2010, n. 206.
Il ricorrente introduce infatti tale argomentazione con il secondo mezzo
(Violazione dell’art. 9, comma 21, del d.l. 78/2010 convertito con
modificazioni dalla l. 122/2010, degli artt. 101 e 112 del d.P.R. 18/1967 e
s.m.i., degli artt. 1 e ss. del d.P.R. 206/2010 e principi generali – Eccesso
di potere).
In particolare, il ricorrente segnala che il personale appartenente alla
carriera diplomatica è retto dal proprio specifico ordinamento, regolato
dal d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, il cui art. 112 – siccome sostituito dal d.
lgs. 24 marzo 2000, n. 85 – ha introdotto il sistema della contrattazione,
da trasfondere successivamente in un atto regolamentare, emanato sotto
forma di decreto del Presidente della Repubblica.
Attualmente, l’atto di recepimento è rappresentato dal d.P.R. 13 agosto
2010, n. 206, successivo allo stesso d.l. 78/10, che, recependo l'ipotesi di
accordo, ne ha espressamente decretato l’applicazione al personale
appartenente alla carriera diplomatica, e, dunque, la relativa disciplina
degli aspetti giuridici ed economici, decorrente dalla data della sua
entrata in vigore, mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale: e tale
d. P.R. non menziona mai il comma 21 (ma solo, nel preambolo, il
comma 4) dell’art. 9 del d.l. 78/2010.
Indi, secondo il ricorrente, l’art. 112 del d.P.R. 18/67 assegnerebbe al
d.P.R 206/10 la funzione di atto regolamentare speciale, che non
potrebbe essere eterointegrato da prescrizioni pur contenute in una
fonte di grado superiore, ma di carattere generale, che non abbia
formalmente recepito.
Anche tale percorso motivazionale risulta infondato alla sommaria
valutazione finalizzata, come appena detto, al giudizio di rilevanza
costituzionale.
Invero, la delegificazione di una materia, effettuata mediante un atto
avente forza e valore di legge, non esclude che altre norme dello stesso
grado possano integrare, con previsioni generali o speciali, la disciplina
della materia delegificata: in altre parole, la delegificazione comporta che
la materia trovi la sua disciplina ordinaria in una fonte inferiore, non che
questa sia l’unica fonte costituzionalmente legittima per la disciplina
della materia stessa.
Nel caso di specie, non pare revocabile in dubbio che l’art. 9 del d.l.
78/10, per il tenore delle prescrizioni in esso contenute, e per la finalità
che esso persegue – e, dunque, per la lettera e la ratio delle stesse – si
prefigga lo scopo di intervenire su tutti i rapporti d’impiego con le
pubbliche amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte
principale che li disciplina.
Tant’è che proprio lo stesso comma 21 in discorso, il cui testo integrale è
stato sopra riportato, dispone, oltre che per il personale pubblico non
contrattualizzato di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165 (in cui rientra il personale della carriera diplomatica), anche
per il personale contrattualizzato, che le progressioni di carriera
comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte
negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini
esclusivamente giuridici.
E allora risulta chiara la volontà del legislatore di escludere, per il
periodo d’interesse sopra indicato, efficacia economica a qualsiasi
progressione di carriera, a prescindere dalla fonte che regola
direttamente o indirettamente il rapporto stesso.
4. Escluso, quindi, che possa rinvenirsi, anche per gli appena indicati
profili, un’erronea applicazione al ricorrente, mediante l’atto gravato,
dell’art. 9, comma 21, del d.l. 78/2010, acquista rilevanza, ai fini della
decisione, la questione, dal medesimo prospettata in via subordinata, di
costituzionalità del ripetuto art. 9, comma 21, del d.l. 78/10, nella parte
d’interesse: disposizione che, secondo quanto si è fin qui visto, trova
applicazione alla fattispecie attraverso il d.p.r. n. 17/2011 gravato in
questa sede, che lede direttamente il ricorrente, e che potrebbe dunque
essere travolto soltanto unitamente alla prima.
5. Nel determinare se la questione sia o meno manifestamente infondata,
il Collegio ritiene di dover partire da quello che è il concreto effetto
della parte di disposizione di interesse nella controversia (“le
progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte
negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini
esclusivamente giuridici”), consistente in ciò, che, per il triennio in
questione, al ricorrente vengono versate non le somme corrispondenti
agli emolumenti, al netto d’imposta, stabiliti per la posizione attuale –
Ministro Plenipotenziario – bensì gli importi corrispondenti alla sua
precedente qualifica di appartenenza, da cui è cessato.
In altre parole, per effetto della disposizione de qua, il dipendente, pur
svolgendo un lavoro presuntivamente di maggiore complessità ed
impegno, continua a percepire un corrispettivo equivalente al precedente
trattamento economico, che si deve presumere adeguato invece ad una
prestazione meno onerosa.
Al riguardo, il Collegio, anche d’ufficio, rinviene distinti profili di
potenziale incostituzionalità, non confliggenti, bensì subordinati tra
loro: nel rispetto, dunque, del principio, affermato dalla Corte
Costituzionale, che considera inammissibili le questioni di
costituzionalità della stessa disposizione di legge, poste tra loro in forma
alternativa ed incompatibile.
5.1. L’art. 9, comma 21, del d.l. 78/10, nella parte d’interesse, determina
anzitutto, in violazione dell’art. 2 Cost., un’irragionevole disparità di
trattamento all’interno del personale della carriera diplomatica.
Infatti, a parità di qualifica e con mansioni conseguentemente
corrispondenti, con incarichi complessi e funzioni di assoluto vertice sia
in Italia che all’estero, come previsto per i Ministri Plenipotenziari, essi
percepiscono o meno lo stesso trattamento economico(in disparte le
maggiorazioni per la diversa anzianità nella qualifica stessa), in relazione
ad un elemento del tutto aleatorio e, in definitiva, privo di sostanziale
significatività, costituito dall’anno in cui la qualifica è stata attribuita, che
non ha evidentemente relazione alcuna con il lavoro prestato.
5.2. D’altro canto, ex art. 36 Cost., il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro: e si
deve presumere che, in specie, tale sia la retribuzione tabellare assegnata
ai Ministri Plenipotenziari, stabilita per effetto di una specifica trattativa
con la parte datoriale pubblica, e poi recepita nel decreto presidenziale
più volte richiamato.
Tale adeguata retribuzione, che continua ad essere corrisposta ai colleghi
promossi prima del 2011, è invece negata all’odierno ricorrente e ciò per
un lungo intervallo di tempo, corrispondente ad oltre trentasei mensilità:
l’art. 9, comma 21, del d.l. 78/2010 si pone dunque in espresso contrasto
con la norma costituzionale testé citata.
Senza contare, vieppiù, che la disposizione non regola la posizione di
coloro tra essi che, nominati Ministri Plenipotenziari nel considerato
triennio 2011/2013, saranno, nell’arco dello stesso periodo, collocati a
riposo per raggiunti limiti di età.
5.3. Non vi è dubbio che il legislatore con l’art. 9, comma 21, del d.l.
7872010 persegua la riduzione del passivo del bilancio statale.
Ma parimenti non può esservi dubbio che tale obiettivo vada perseguito
con criteri di proporzionalità e ragionevolezza, e nel rispetto dei principi
di eguaglianza formale e sostanziale ex artt. 2 e 3 Cost., e
conformemente agli altri valori tutelati dalla Costituzione, tra cui
appunto quelli definiti dall’art. 36 Cost..
Questo non si verifica, invece, nella specie: l’eliminazione del miglior
trattamento economico, riferibile alla nuova posizione acquisita,
contrasta con il principio di proporzionalità testé richiamato, che il
legislatore, pur nella sua discrezionalità, è tenuto a rispettare.
5.4. Per altro verso, poi, la situazione così descritta, dove il trattamento
economico tra colleghi si differenzia non per le mansioni e le
conseguenti responsabilità, ma in relazione ad un elemento casuale come
il momento in cui la qualifica è stata conferita, non può non ritenersi
suscettibile di interferire negativamente anche nei rapporti tra gli stessi,
alcuni dei quali ingiustamente discriminati, riverberandosi indi
sull’organizzazione degli uffici e incidendo negativamente sul loro buon
andamento, in violazione dell’art. 97 Cost..
5.5. Sotto un ulteriore profilo, ed in subordine rispetto alle censure
precedentemente dedotte, si deve constatare come l’art. 9, comma 21, del
d.l. 78/2010, sebbene prescriva letteralmente di non accrescere il
trattamento economico dovuto a determinate categorie di pubblici
dipendenti, con un conseguente risparmio di spesa per l’Erario, sotto un
profilo sostanziale e degli effetti impone a quegli stessi dipendenti quella
che è una vera e propria prestazione patrimoniale, poiché trattiene una
parte dei compensi maturati con la nomina e che sono corrisposti agli
altri colleghi di pari grado.
5.6. L’art. 9, comma 21, del d.l. 78/2010 impone cioè agli interessati un
peculiare concorso alle spese pubbliche, ovvero, in altri termini,
istituisce un tributo anomalo, il quale contrasta con i principi
costituzionali in materia, quali stabiliti dagli artt. 2, 3 e 53 della
Costituzione.
5.7. È infatti anzitutto violato il principio di capacità contributiva,
poiché il sacrificio è richiesto non in relazione ad uno specifico indice di
ricchezza, bensì in ragione del dato, economicamente insignificante, del
momento in cui la qualifica è stata acquisita, e senza alcuna
considerazione del principio di progressività.
Si aggiunga che, in evidente violazione dei principi costituzionali prima
richiamati, il tributo colpisce solo una parte dei dipendenti che hanno
raggiunto una determinata qualifica, e, comunque, soltanto i redditi dei
pubblici dipendenti, senza invece gravare, a parità di capacità
contributiva, su analoghe categorie di lavoratori, o di redditi.
5.8. In altre parole, a fronte del limite espresso all’azione impositiva di
far corrispondere a uguali situazioni uguali tributi, e viceversa, il
sacrificio patrimoniale, il quale incida soltanto sulla condizione e sul
patrimonio di una determinata categoria di pubblici impiegati, lasciando
altre categorie di lavoratori (essenzialmente e segnatamente autonomi)
indenni, o comunque colpendoli più leggermente, a parità di capacità
reddituale, è arbitrario ed irragionevole, e viola il principio di
uguaglianza ex art. 3 Cost. ed il principio solidaristico di cui all’art. 2
Cost.
6. In conclusione, sussistono dunque i presupposti di rilevanza e di non
manifesta infondatezza che impongono al Collegio di sollevare
questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, del d.l. 31
marzo 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio
2010, n. 122, per la parte in cui stabilisce che “le progressioni di carriera
comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e
2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici”,
per contrasto con gli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione.
Restano riservati all’esito del giudizio incidentale le determinazioni
definitive sulle questioni preliminari, sul merito e sulle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)
a) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, del d.l. 31 marzo 2010, n.
78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nei
termini e per le ragioni esposti in motivazione, per contrasto con gli
articoli 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione;
b) sospende il giudizio in corso;
c) ordina che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Segreteria
della Sezione, a tutte le parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei
ministri, e che sia comunicata al Presidente del Senato della Repubblica
ed al Presidente della Camera dei Deputati;
d) dispone la trasmissione degli atti, a cura della stessa Segreteria, alla
Corte costituzionale
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 maggio
2012 con l'intervento dei magistrati:
Calogero Piscitello, Presidente
Roberto Politi, Consigliere
Rosa Perna, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 06/07/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
 
Top
0 replies since 11/12/2013, 12:58   226 views
  Share